News e storie

Il diario della nostra estate

Quante emozioni può contenere una settimana di vacanza?

Da quando organizziamo Estate Paideia, tre settimane in cui alcune famiglie con bambini con disabilità vengono ospitate a rotazione in un villaggio accessibile in Toscana insieme ai volontari della Fondazione, abbiamo scoperto che possono essere tantissime!

Nella settimana centrale dei nostri soggiorni di quest’anno abbiamo avuto due inviati molto speciali: Enrica Tesio e Andrea Guermani. Enrica, che lavora con le parole, ha cercato di fermare alcuni attimi, raccontando ciò che si prova in sette giorni di mare, sole, giochi, condivisone e confronto; Andrea, che nella vita quotidiana fa il fotografo, ha catturato sorrisi, tuffi, disegni, momenti e sguardi, che delle sensazioni dell’Estate Paideia raccontano moltissimo.

Siete pronti a partire per un’estate emozionante senza spostarvi da dove siete proprio ora che state leggendo?

Buon viaggio, immergendovi nel diario di Enrica e Andrea.

Da tutti noi un grandissimo grazie a loro che hanno prestato cuore, occhi e parole a questa esperienza.

 

Giorno 1.

I miei figli e io non siamo un trio, siamo una terzina. Le terzine sono gruppi di note irregolari, con un andamento sincopato, come i nostri giorni, è sempre stato così. Siamo un’armonia di disaccordi. A volte penso che “Noi”, noi tre, sia semplicemente il plurale di “no”. Marta e Lorenzo sono sorprendenti nel loro costante incalzare di richieste, non desistono, anche se sanno che rifiuterai: chiedere è lecito, rispondere è cortesia. Infatti per le prime ottantacinque volte rispondo cortese, l’ottantaseiesima purtroppo mi sale l’Optimus Prime, il capo dei Trasformers e mi esce un No baritonale e metallico, a cui comunque sanno ancora ribattere con “Dai, mamma”. Come dire fin qui si è scherzato, era solo un assaggio, ma adesso si fa sul serio. Questo è ottimismo. Sono cavalli lanciati in due direzioni opposte e io in mezzo, un braccio uno e un braccio l’altro a stracciarmi l’anima in due. I romani, che erano gente pragmatica, la chiamavano tortura per smembramento, noi che siamo sognatori decadenti la chiamiamo maternità consapevole. Questa premessa è necessaria a spiegare quella leggera ansia che mi prende sempre prima di partire con loro, ma questa partenza è diversa, più emozionante. Ho deciso di coinvolgerli nella settimana organizzata dalla fondazione Paideia, verranno con me nel villaggio Pappasole, vicino a Follonica, insieme ad altre famiglie con figli disabili e a volontari di tutte le età, dagli under 19 agli over 50. Perché? Perché loro vedano un pezzo di mondo nelle vite degli altri. Forse è questa la differenza tra una vacanza e un viaggio. Sono certa che ci divertiremo, che mi stracceranno l’anima, ma che i giorni tutti insieme sapranno ricomporla.

 

Follonica. Giorno 2.

Ogni genitore che cammini su questa terra ha due pensieri fissi nei confronti del proprio figlio: andarsene da questa terra prima di lui e, fino a quando questo non accadrà, saperlo felice, nella misura in cui ci è concesso di esserlo. La disabilità sposta tutti i metri con cui un genitore misura la vita e la felicità e i metri diventano chilometri, spesso da percorrere in solitudine, anche il tempo passa a una velocità diversa. Le parole di uso comune cambiano sfumature di significato. Tipo “estate”. Ti è sempre piaciuta, ti piacevano i gavettoni sulla spiaggia, ti piaceva non avere orari, mangiare tardi che tanto siamo in vacanza, svegliarsi tardi che tanto siamo in vacanza, non pensare a nulla che tanto siamo in vacanza e tutto ma proprio tutto può aspettare. Ora la parola estate è insidiosa, perché vuol dire ignoto, vuol dire spostarsi dai territori conosciuti, dalla routine che è una conquista. La disabilità teme le sorprese, è un bagaglio pesantissimo in vacanza.

La disabilità non è contagiosa, ma è capillare, non riguarda mai l’individuo, ad essere disabile non è solo un bambino, per esempio, ma l’intera famiglia. È un pensiero banale, ma io non c’ero mai arrivata: il sostegno, per sostenere davvero, deve essere allargato alle madri, ai padri, ai fratelli, ai nonni.

C’è Lucia che è bella e ha la delicatezza degli animali feriti, sta guardinga, la sua vita ha a che fare col silenzio, di un figlio adolescente che fatica a raccontarsi per via di quell’età infame e di un altro che fatica ad esprimersi perché non sente dalla nascita. Mia sorride, più del necessario, per legittima difesa, sorride di stanchezza perché la sera Ivan per respirare deve stare attaccato a una macchina, il sonno gli può essere fatale, si chiama sindrome di Ondine. Rossella guarda il marito con un’intensità per me inconsueta, non hanno nemmeno bisogno di parole, si sanno, hanno tre ragazze, la più piccola ha due anni, occhi grandi e lentiggini, come la mamma, e un bambino, Daniele, la copia del papà. Daniele ha voluto vivere a dispetto di tutto, ho la sensazione che sia stato lui ad allacciare più stretto lo sguardo tra i suoi genitori.  La mia amica Valentina Tomirotti nel suo bel libro “un altro (d)anno” scrive che i disabili in Italia vengono raccontati in due soli modi: nell’accezione “oh poverino” oppure “oh che eroe!”. Si può estendere anche a chi ha un figlio disabile.

Ecco, credo che Lucia, Mia, Rossella, come tutti qui, disprezzino i pietismi, ma volentieri baratterebbero anche la mantellina e la S sulla maglietta, per del sano cazzeggio, una bevuta tra amici, un gavettone sulla spiaggia. La Fondazione Paideia, tra le altre cose, fa in modo che parole come estate e vacanza riacquistino il loro significato originario. Che i chilometri di fatica tornino ad essere metri, che il tempo scorra come per tutti. siamo al trentottesimo gavettone sulla spiaggia, alla terza bevuta e all’infinito cazzeggio. Ed è solo l’inizio.

 

 

Follonica. Giorno 3.

L’età maledetta, quella delle magliette in spiaggia, mai abbastanza lunghe per nasconderci dentro tutta l’inadeguatezza dei dodici anni. Quella delle prime delusioni amicali che anticipano le prime delusioni amorose, quella dove hai la sensazione di essere l’unica a non aver a disposizione le istruzioni di un gioco che diverte Tutti. Quella dove vorresti essere come Tutti, ma non sai come si fa. Guardo Giovanna con amore, scrivo di lei, mentre lei scrive di sua sorella più piccola, autistica. Vorrei dirle tanto, che il meglio deve ancora venire per esempio e che se arriverà il peggio sarà pronta ad affrontarlo. Vorrei dirle di lavorare il più possibile sulla spina dorsale e il meno possibile sulla corazza. La spina dorsale ci sostiene da dentro ed è fatta delle nostre passioni, dell’amore che ci nutre, del nucleo profondo che di determina. La corazza è un guscio, una difesa che tiene lontani i pericoli forse, ma che ci fa muovere male, goffi, che non fa sentire la vita sulla pelle. Vorrei dirle che, a differenza di quanto ci hanno insegnato le storie dei cavalieri, le corazze sono per chi non sa combattere.

 

Follonica. Giorno 4.

Dal diario di Giovanna, 12 anni:

“Pappasole è un posto bellissimo, anche se oggi il sole non si è visto. Il giorno dell’arrivo, dopo cinque ore di treno e di noia, mia sorella ha trovato subito uno spazio tutto suo, per giocare. Margherita ha sette anni, cinque in meno di me, parla molto meno di me, ma è sempre in movimento. Margherita è speciale in tanti modi: non si stanca, è libera, è autistica non verbale. I miei genitori si rilassano grazie ad Alexia che segue mia sorella. Io mi devo rilassare per forza perché sono stata operata da poco e non posso fare il bagno né in mare né in piscina. Riesco sempre a trovare qualcosa da fare con i volontari, anche solo a chiacchierare delle mie avventure e disavventure, dei sogni che faccio e dei sogni che non faccio e che tengo nel cassetto. Nel cassetto c’è il libro fantasy che sto scrivendo, parla di un gruppo di ragazzini speciali, “diversi”, sono re in un’altra dimensione parallela, ma nel nostro mondo non vengono capiti fino in fondo.
Mentre aspettiamo il sole, ora, qualcuno di noi sta seduto ad ascoltare la musica, Marta usa i volontari come pungiball, altri giocano a ping pong e fanno nuove amicizie. Io scrivo”.

 

Follonica. giorno 5.

I bambini la diversità la accettano, l’unico discrimine per i bimbi è la simpatia epidermica e questo prescinde dalla disabilità, dal colore, dalla nazionalità. Quel bambino mi è simpatico, quello no, punto. Quello che non accettano i bambini è l’ineluttabile. I miei figli faticano a capire che Daniele non camminerà mai o che Sofia non riuscirà a spiegarci cosa vede dal suo mondo. Marta cerca di rassicurarmi: “Ma sono piccoli, vedrai che impareranno”. No, non impereranno, non possono, ma possiamo imparare un pezzo in più noi, per capirli, per parlare anche senza parole. Si blatera tanto di buonismo come fosse la piaga del secolo, ma lo si scambia col buon senso. Occuparsi dell’altro è buon senso, perché è il modo più profondo per occuparsi di se stessi.

Abbracciare l’umanità, nostra e altrui. Abbracciare tutto quello che sarebbe potuto essere e non è stato. Abbracciare. Me lo dico da sola: abbraccia la possibilità che tu abbia avuto solo culo ad aver mantenuto la tua normalità intatta, fin qui. Che tu abbia avuto culo a nascere nel paese giusto e nel corpo giusto. In un paese che vive in pace e in un corpo che non conosce guerra. Abbraccia le persone che potevi essere e che non sei. Se abbracci la tua umanità, abbracci l’Umanità intera.

 

Follonica. Giorno 6.

Dal diario di Sara Norbiato, volontaria Fondazione Paideia, vent’anni:

“Quando sono salita sul treno per Follonica, non sapevo bene cosa aspettarmi da questo viaggio. Lo zaino mi pesava sulle spalle e nella valigia mi portavo dietro, insieme ai vestiti, una buona dose di insicurezza. Dopotutto, quello che sto vivendo non è solo il mio primo soggiorno estivo, ma anche la mia prima settimana trascorsa da sola, lontana dalla mia famiglia. Ma “sola” è una parola grossa. Da quando sono diventata volontaria, a settembre dell’anno scorso, e dal primo chilometro percorso con il treno, ho avuto la sensazione che non mi sarei mai sentita isolata.
Oggi è mercoledì e vorrei che il tempo si fermasse, e che questa settimana durasse in eterno. La sera sono stanca, sfinita, ma combatto il sonno pur di rimanere in compagnia degli altri volontari: quando chiacchiero e rido insieme a loro, ho l’impressione di conoscerli da sempre. Siamo tutti diversi: chi studia, chi lavora, chi è più timido, chi più estroverso. Quello che ci accomuna è la voglia di divertirsi e di divertire. Inutile dire che ora nella valigia l’insicurezza è sparita, devo far spazio per uno scatolone di bellissimi ricordi”.

 

Giorno 7.

Il mio amico Roberto Mercadini (che non saprei nemmeno come definire per quanto è bravo: cantastorie? divulgatore? boh) ha in repertorio un monologo che si intitola “Diversamente disabili” dove, tra le altre riflessioni, indaga come sia difficile parlare di disabilità a partire dal lessico scelto. Prima si usava handicappati, poi questa parola è sembrata offensiva e si è passati a portatori di handicap. Poi è sembrato offensivo anche quello, anche vagamente ridicolo dico io, perché questa disabilità da portare in giro, tipo al guinzaglio, fa subito “scendi l’handicap che lo piscio”. Ora si parla di disabili o diversamente abili.
Lorenzo è un bambino che si preoccupa molto di offendere, di dire male. Mi ha chiesto se potesse usare il termine “malattia” oppure “problema”, riferendosi ad alcuni dei suoi nuovi amici. Non ho saputo rispondere con esattezza, ma sono certa che l’unico modo per dire bene la diversità è ascoltarla, chiedere, con rispetto.
Ora che il soggiorno si è concluso, mi rendo conto che tutto ha avuto a che fare con l’ascolto, degli altri e di me stessa. Ho pensato anche alle mie disabilità, siamo tutti disabili emotivi, chi più chi meno, sarà per questo che si dice rabbia cieca, dolore sordo, tristezza muta, ansia paralizzante. Abbiamo il difficile compito di far camminare l’ansia, allontanarla; guardare la rabbia negli occhi, farsi guardare, per spegnerla; fare in modo che il dolore senta anche il bello, dare parola alla tristezza, lasciarla sfogare, farle spiegare le sue ragioni.
In questi giorni mi sono emozionata tanto, bene, con gioia. L’ultima sera, una sera di luna, ci siamo raccolti in cerchio, adulti e bambini, e ho letto qualche favola. In particolare, la storia di Pino Pace che racconta di una magica eclissi capace di trasformare una balena nella sua amica farfalla per farla volare fino al cielo e di mutare la farfalla in balena per nuotare nelle profondità marine. Spiega l’incredibile esperienza del mettersi nei panni degli altri e tornarne arricchiti, credo, anche se lo dovremmo chiedere a Pino Pace. Niente di miracoloso, dei miracoli non mi fido, ma delle piccole magie sì, anche se dovessero durare solo il tempo di un’eclissi. O di un’estate.

 

Dal diario di Giovanna, 12 anni:

“Abbiamo appena messo piede sulla carrozza e Alexia si è addormentata come un orso in letargo, altri mangiano, io invece sto cercando di abbandonare la noia. La mia mente continua a dirmi che ho lasciato alle spalle i giorni con Paideia, e il nonno di Greta, prima che me ne andassi, mi ha detto di non essere triste e di far finta che sarei tornata fra qualche anno. Cerco di convincermi che questa cosa sia vera ma non riesco. Nel profondo, so che quella settimana è sembrata durare un giorno e che quelle conversazioni sono sembrate piccole, ma nella loro piccolezza sono riuscite a segnarmi, perché si sa, anche le cose più piccole riescono a entrare nel tuo cuore. C’erano bambini che avevano avuto quella “fortuna” di poter camminare ed esprimersi, ed altri che non l’avevano avuta. Io invece, ho avuto quella sfiga che hanno in pochi, ovvero quella di essere operata e di non potermi divertire al completo. Potevo solo stare sul bordo dell’acqua del mare dove sembrava non esistessero confini ed aspettare che le onde mi sfiorassero i piedi come le carezze compassionevoli di una persona amata. Una parte dei bambini aveva avuto la fortuna di conoscere nuove persone diverse che vivevano nel loro piccolo mondo. Avevano avuto la fortuna di avere dei genitori altruisti e ben informati, che volevano trasmettere positività ai loro bambini. L’altra, invece, aveva avuto la fortuna di divertirsi senza avere delle barriere davanti a loro, correndo in una sedia a rotelle o correndo liberamente. Ora scrivo questi ricordi perché non ho un quadro dove dipingerli, un quadro che verrebbe colorato come un arcobaleno dopo una pioggia di tristezza o come un prato fiorito dopo il primo mese di primavera”.